Damien Hirst e la critica aprioristica
Il dibattito attorno ad Archeology Now: scrivere sul niente basandosi sul nulla
(pubblicato su /culture.future/)
Nei meandri del diario elettronico di Facebook, quattro settimane fa compare il commento della belligerante ‘Iarlai Nissicsa’: “Io dovrei pagare un biglietto per sovvenzionare uno che spacca a metà mamme con figli e li mette nella formaldeide?”
Sulla scia delle memorie infantili, risponde il nostalgico Adriano Nardi, già con la mente proiettata verso le vacanze imminenti: “ricorda i lavoretti che fanno in colonia con le conchiglie o quelle ‘installazioni’ nelle vetrine dei negozietti al mare”.
Superando le barriere del tempo Eugenia Nante commenta “a me gli azzardi piacciono da impazzire: due contemporanei come Tiziano e Hirst si amerebbero molto, e probabilmente si scambierebbero volentieri i pennelli nel loro gioco di colori”.
Gli instagrammer si infiammano: come potrebbero scambiarsi i pennelli? Hirst non è un vero artista.
‘n.ina_sa’ rincara: “Vi siete piegati a un cialtrone che non sa nemmeno come si modelli la creta! Vi siete piegati al marketing più bieco (non all’arte) e lo state foraggiando”.
Al coro si unisce ‘azyrafael’ il quale ipotizza perfino un sotterfugio della nuova direttrice: “I guess they put these ugly things there so we can better appreciate real art?"
L’entusiastico commento di ‘massimo_martignoni’ spezza la linea sferzante: Hirst è a pieno titolo un ‘vero artista’, anzi così armonico da non distinguersi dagli altri: “You are not British, you are a Roman Baroque artist, no kidding”.
C’è però chi non la pensa esattamente così. Juan Manuel Martorell nota notevoli differenze: “Galleria Borghese e Hirsch (sic), la Bibbia ed il water”.
Il confronto duchampiano non può che elogiare in realtà…
Ecco quindi giungere il meno magnanimo ‘ah.ops.00’: “non scherziamo, un vero cialtrone. È sufficiente guardarlo per capire che è un salumiere. L’arte a volte si perde in meandri di una bassezza (nell’originale bassezalza) incredibile”.
‘chefscottishfrancis’ però dissente. Egli conserva ancora vivo il ricordo della mostra precedente e scende in campo per difendere il suo amato: “Wow. Seriously. The show in Venice had me and the wife in tears. We took a whole vacation just to see it. And now we will be doing the same for this lol”.
Il ‘bad boy dell’arte inglese’ colpisce ancora? E questa volta non espone nella cosmopolita Venezia, bensì presso il tempio dell’arte che i sacerdoti conservano gelosamente nelle sue antiche vestigia, la Galleria Borghese. Il “godimento futile dell’evento spettacolare” che si era palesato nel 2017 presso Palazzo Grassi e Punta della Dogana è tornato e ha attaccato l’intoccabile e puro ‘centro del mondo’. L’eccitazione dilaga presso orde di barbari e entusiasti visitatori attratti dal grande nome come un pesce dall’esca: li vedi riversarsi nelle sale dell’eruditissimo Scipione Caffarelli Borghese; si odono discorsi da far accapponare la pelle, come il domandarsi di ‘tre gentili signore’ del motivo per il quale la Leda di scuola leonardesca “prenda per il collo un’oca”.
Oltraggio alla cultura, a secoli e secoli di elegante e raffinatissima arte! Damien Hirst, l’innominabile profanatore che, purtroppo, siamo costretti a pronunciare, “non è Bernini e non è Canova”: il confronto è oltraggioso anche solo a scriverlo. Eppure, l’artista non si è fatto scrupoli e ha posizionato la sua Donna distesa (2012) a poche sale di distanza dall’inarrivabile Paolina Borghese del Canova e in prossimità dell’armonica Danae del Correggio.
Damien Hirst: Donna distesa
Ecco cosa pensano gli scettici, che si sono riversati a frotte sui social: orribilmente ‘cheap’, la statua recumbente denota la spasmodica ricerca, da parte dell’artista inglese, di una certificazione, di un riconoscimento del suo operato all’interno della tassonomia dell’Arte. Quale luogo migliore per conquistarsi lo status se non un’istituzione così rispettabile come la Galleria Borghese? Con l’agognato attestato, inutile dirlo, raggiungerà l’ἀκμή della propria carriera, votata questa completamente e unicamente all’ascesa vorticosa delle sue quotazioni.
Con questa digressione di certo si saranno ravvivati gli animi di molti critici d’arte che in questi giorni hanno commentato acidamente la mostra in questione, ponendo alla ribalta accuse quanto mai trite e ritrite, come rimproverare ai direttori dei musei di esporre i grandi nomi internazionali al solo fine di attirare il ‘popolino’. La questione non dovrebbe essere ridotta a una sfida sulla (presunta) purezza: innanzitutto, all’esposizione si sono recati innumerevoli professionisti del settore; in secondo luogo, non bisognerebbe mai dimenticare le funzioni di un museo: non solo conservare ma anche comunicare ed esporre “per scopi di studio, educazione e diletto promuovendone la conoscenza presso il pubblico e la comunità scientifica” (ICOM 2007, ripreso dal Decreto Ministeriale MiBACT -ora, semplicemente MiC- 23 dicembre 2014, Organizzazione e funzionamento dei musei statali, art.1). Il pubblico in senso lato, dunque, è incluso come fruitore e ha il diritto di entrare nei ‘templi dell’arte’ come tutti gli altri – anzi, per fortuna vi si reca!
Damien Hirst: Bust of the collector
Se la mostra è curata in modo adeguato, pensate un po’, potrebbe perfino imparare qualcosa! Non dovrebbe esser così dirimente che ci entri per esplorare, per riconoscere, anche soltanto per partecipare a un rito: è soltanto entrando che le opere d’arte possono attivare un dialogo, incoraggiandolo a combinare il ‘diletto’ (enjoyment nella definizione originale) con lo studio e la formazione. Spiace comunque dover sottolineare che nella Galleria Borghese i visitatori, siano esperti o meno, si introducono comunque quasi al sol fine di ammirare i lavori dei grandi nomi…
E qui spunta la seconda questione: Damien Hirst “non è Bernini e non è Canova”. Lapalissiano. Ecco riemergere l’annosa questione della lotta impari tra arte del passato (anche recente) e arte contemporanea: si può veramente paragonare Hirst con Canova? Ovviamente no, e per una ragione molto semplice: non sono uguali né possono esser posti sullo stesso piano perché i periodi in cui sono vissuti e la weltanschauung di questi sono troppo diversi.
Quale sarebbe la soluzione? Continuare senza sosta a esporre solamente Canova, Bernini e altri grandi come Leonardo e Michelangelo (magari con qualche inserto non campanilistico e in fondo blockbuster come Van Gogh e Monet), oppure finalmente aprirsi anche alla produzione più recente, e per recente si dovrebbe intendere – attenzione, chiudete gli occhi perché potrebbe esser un colpo duro da digerire – di artisti tuttora viventi?
In questo caso in particolare, Damien Hirst (grazie alle intuizioni eloquenti della curatrice Anna Coliva, che chiude magnificamente la propria direzione) ha costruito un dialogo con i nomi ‘superstar’ che vanta la Galleria Borghese, ammiccando ed evocando, associando forme e visioni, declinando la propria critica beffarda ai protocolli ottocenteschi. La nuova direttrice della Galleria Borghese, Francesca Cappelletti, ha giustamente sottolineato: questa «collezione è un organismo che respira tutto insieme e che non è mai stato (specialmente la collezione di Scipione Borghese nei primi anni del Seicento) un punto di arrivo, ma una potenziale fonte d’ispirazione per tutti gli artisti che ci sono passati dopo, un punto di partenza per le ricerche degli artisti, per le emulazioni dei mecenati e degli altri collezionisti del periodo.» Un museo non è un mero ‘deposito di oggetti’. La stessa Cappelletti è ben conscia della difficoltà di organizzare una mostra in un contenitore sì tanto “definito e armonico” come la Galleria Borghese, però accetta la sfida che può anche avvicinare in tal guisa le opere antiche “a uno sguardo contemporaneo” (Fonte: Finestre sull’Arte).
In chiusura, è opportuno evidenziare una ‘malefatta’ piuttosto grave: molti storici dell’arte hanno disapprovato la mostra prima ancora della sua apertura, e dunque prima ancora di averne preso visione loro stessi. Come si può scriver male di un evento senza ancora avervi partecipato? In tal modo la critica appare vacua e priva di ogni fondamento empirico, peccando di negligente superficialità.
Qui non si tratta di schierarsi a favore o contro Archeology Now, ma per riflettere su una mostra bisognerebbe come minimo andare a visitarla e trarre poi le proprie conclusioni senza schierarsi pregiudizialmente e per partito preso.
Giulia Rustichelli