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Il Correggio

Gli studiosi sostengono che il Correggio sia stato a Roma nel primo decennio del Cinquecento.
Egli poté così studiare i modelli antichi e valutare di persona le grandi novità introdotte nel mondo dell'arte da Raffaello e Michelangelo.
Fondamentalmente, Roma non custodisce quasi nulla del Correggio, tuttavia non si poteva dimenticare di menzionarlo tra i visitatori illustri.

Sul finire del secolo XV, quando l'Arte italiana s'espandeva per tutto nella piena vigoria del Rinascimento e nelle corti italiche convenivano i nostri Sommi a prodigarvi opere immortali, nasceva in Correggio, borgata del Reggiano, Antonio Allegri, che amò chiamarsi latinamente anche Laetus e Lieto.
Della breve e feconda esistenza poche ed incerte le notizie. Ove si escludano i documenti per compere di terreni e quelli di commissioni d'opere d'arte, nulla sappiamo di Lui: né l'anno preciso della sua nascita, né il nome del suo maestro. Il 5 Marzo 1534 “fini la vita nell'età sua d'anni quaranta o circa”: così il Vasari che fu a Parma nel 1542 per ammirarne le opere. Una lapide tardiva posta a Correggio a memoria del Grande conferma questa asserzione. Dovremmo dedurne ch'egli sia nato nel 1494. Altri studi s'oppongono alla teoria del Luzio, il quale affermò, senza fondamento giuridico, che a Correggio si diventava maggiorenni non già a ventuno, come avevano detto tutti gli storici d'arte dal Tiraboschi in poi, bensì a venticinque anni, e quindi che l'Allegri, avendo avuto ancor bisogno del consenso paterno, ma senza l'intervento del magistrato, nel contratto per la pala del S. Francesco ora a Dresda, steso il 30 Agosto 1514, si doveva rimandare la nascita dal 1494 al 1490, se non prima; in tal caso Antonio Allegri avrebbe potuto esser stato scolaro del Mantegna che morì nel 1506. Ma il Luzio non seppe che per gli artisti gli Statuti facevano un'eccezione. Perciò dobbiamo ritenere accettabile la data 1494, fino a che non venga una prova documentata in contrario.

Gli fu assegnato come maestro, fra gli altri, lo zio paterno Lorenzo morto nel dicembre 1527. Possiamo in massima accettare questa notizia; forse lo zio guidò il giovinetto nei primi studi, ma nulla ci resta di Lorenzo Allegri, nulla quindi possiamo dire con certezza.
È poi da escludersi l'insegnamento del Bianchi Ferrari. Le rarissime opere di quest'artista, pur tenendo conto dei rifacimenti a cui tutte andarono soggette, contrastano troppo con i lavori giovanili del Correggio che preludevano ad una larghezza nel modellare, ad un sentimento e ad una ricchezza di colorito che in verità il Ferrari non possedette. Invano ci si offre come modelli di questo l'Annunciata e la Crocifissione (opera straniera) dell'Estense, a Modena. La Madonna Campori può avere qualche lontana analogia quel colorito, ma non dobbiamo dimenticare che la pulizia del 1852 ne ha alquanto modificato l'aspetto, e che la piccola tavola lascia alcuni dubbi sulla sua autenticità.
Fu allora allievo del Mantegna? È innegabile che questo grande Maestro abbia esercitato sul Nostro, in tutto quanto è decorazione, un fascino singolare che si mantenne costante fino alla morte. Lo ha pure impressionato, in principio, nella parte figurativa, e gli ha aperta la strada nell'adottare la teoria del sotto in su, che felicemente tentata dal Mantegna, il Correggio seppe applicare e svolgere «con stupenda meraviglia». Ma non per questo lo si deve ritenere suo maestro diretto; troppa diversità corre fra le opere degli scolari sicuri del Mantegna e quelle del giovane Correggio per potere un momento solo accettare questa supposizione.
La Camera degli sposi nel Castello di Mantova con le pareti ornate di festoni di fronde, col soffitto che offre la prospettiva d'una balaustrata alla quale stanno variamente appoggiati od affacciati dei putti; la decorazione di un cortiletto dello stesso castello con verdi piante di limoni, come appare da pochi bellissimi avanzi; i putti che accendono candelabri nel trionfo di Cesare, sono tutti motivi che il Correggio vide, assimilò e riprodusse trasformandoli. Così si dica della Madonna della Vittoria ora al Louvre, in cui pergolato gli offrì lo spunto per la decorazione della Camera di S. Paolo e dell'Abside di S. Giovanni, dopo di aver già riprodotto l'atteggiamento della Madonna nella sua del S. Francesco, e averne accennata la decorazione nel quadretto Frizzoni.
Ma nella mirabile fusione del chiaroscuro egli nulla ricorda del Mantegna sempre un po' duro e tagliente, bensi s'avvicina alla rara maestria di Leonardo, e la tavolozza s'ispira a quella dei Veneziani attraverso i pittori ferraresi. Dobbiamo concludere essere l'Allegri dotato d'una grande potenza assimilatrice che, servendosi del già visto, non gli impedisce di creare dei capolavori con carattere prettamente personale.
Visitò Mantova? Nessun documento ce lo prova. La buona relazione della Principessa Gambara di Correggio con Isabella d'Este, Marchesa di Mantova; l'esistenza della lettera della Gambara a quest'ultima annunciandole l'avere “il nostro maestro Antonio” ultimata la Maddalena, non è, come vorrebbero alcuni, la prova inconfutabile della presenza dell'artista in quella città.

Le stampe delle opere del Mantegna erano, già allora, numerose; forse di queste s'è giovato il Correggio. Ad ogni modo, pur essendo artista sommo nell'animo, e forse autodidatta, deve aver veduto molti lavori di scuole diverse, e fra le corti vicine, solo quella di Mantova poteva offrirgli tale ricchezza e varietà di modelli; noi pure riteniamo ch'egli visitasse la patria di Virgilio e di Sordello.
Alcuni studiosi, deducendo da qualche sua figura, pensano ch'egli abbia visitato Roma. Anche di questo viaggio ci mancano documenti, ed il Vasari ed il Landi lo escludono nel modo più assoluto.

La brevità di questi cenni non ci consente di numerare le opere giovanili del Correggio, accettate dalla critica moderna quale necessaria preparazione alla Madonna del S. Francesco, prima grande pala dell'artista, e cioè: Lo Sposalizio di S. Caterina già di proprietà Frizzoni, il Fauno che suona la siringa ora a Monaco, il Congedo di Cristo dalla Madre (Londra), ecc.: in tutto quindici fra tele e tavole, delle quali nove soltanto possono ritenersi ormai indiscutibili.
L'atteggiamento della Madonna del S. Francesco, come abbiamo già notato, riproduce in parte quello della Madonna della Vittoria del Mantegna; ma già in essa appaiono numerosi i caratteristici putti correggieschi, e un colonnato jonico ne forma la decorazione all'uso della scuola veneziana. Nel colorito ricorda i ferraresi e i bolognesi.
Della stessa epoca si ritiene il quadro dei quattro Santi ora a Londra.
A questi doveva seguire la Madonna d'Albinea (1517) conosciuta in almeno tre copie; (l'originale asportato indebitamente, a quanto pare, nel 1647 dal Duca di Modena Francesco I dalla Chiesa d'Albinea, spari senza lasciar tracce), e quella Maddalena, pure perduta, citata da Veronica Gambara nella lettera ad Isabella d'Este. Il riposo nella fuga (Uffizi), La Vergine col S. Giovannino (Prado), la graziosa Madonna di Napoli detta la Zingarella, la Santa famiglia col S. Giacomo (Hamptoncourt) e, a quanto sembra, la perduta Madonna di Casalmaggiore, formano un sol gruppo con i lavori sopra citati, e chiudono il periodo giovanile dell'attività del Maestro.

Nessun documento accenna alla data dell'esecuzione degli affreschi nella Camera di S. Paolo a Parma. La maggior parte dei critici, ancora discordi sul significato delle figurazioni, la ritengono eseguita fra il marzo 1518 ed il gennaio 1519.
La Camera quadrangolare ha la volta divisa in sedici spicchi, da costoloni che danno luogo in basso ad altrettante lunette, posate su d'un finto cornicione. Fra due grandi finestre un bel camino del Rinascimento, scolpito da Gian Francesco d'Agrate intorno al 1514, porta sulla cappa la figura affrescata di Diana sul carro tirato da cerve, e credesi di ravvivare nella Diana l'immagine di Donna Giovanna Piacenza, allora Badessa del Convento e committente dell'opera. La volta raffigura un grande pergolato d'un verde intenso, legato nel centro da nastri dai quali pendono mazzi di fiori e frutta. Nel rosone l'arma scolpita e dorata della Badessa. In ogni spicchio, ad una apertura ovale s'affacciano, copie di forti e vivaci putti in atto di giocare, o con trofei di caccia. Le lunette in chiaro-scuro hanno figure allegoriche, e mitologiche di mirabile finezza. Il sottostante finto cornicione presenta teste d'ariete abbinate e rivolte in senso opposto, che sostengono lini e veli allentati a festone, portanti patere, vasi d'oro e d'argento e verdi ramoscelli, motivo originalissimo e di grande effetto. L'insieme della decorazione, condotta con squisito senso d'arte, con rara maestria nei contrasti, è improntato ad una vivace giocondità.
La seconda grande opera a fresco dell'Allegri è la Cupola della Chiesa di S. Giovanni Evangelista in Parma, il cui primo pagamento è datato: 6 Luglio 1520. Vi raffigura l'ultima visione di S. Giovanni: i cieli aperti lasciano vedere la gloria di Cristo, e gli apostoli invitano l'Evangelista ad ascendere fra loro. Qui finalmente si manifesta intera la profondità e la forza di sentimento di quest'uomo che dovette vivere al di fuori e al di sopra delle piccole vicende della vita, tutto assorto nelle meravigliose visioni dell'arte, e nella creazione di quelle figure casi umanamente perfette da sembrare prototipi d'una razza migliore. Nella stessa chiesa affrescò nel catino dall'abside l'Incoronazione della Vergine, tra una gloria di patriarchi, di santi e di angeli. Disgraziatamente i Benedettini, per eseguire un ampliamento, decisero di abbattere l'abside e con essa l'affresco, dopo averne fatto trarre da Cesare Aretusi una picola copia. Furono salvate poche teste di angeli ora a Londra, e le mezze figure del Cristo e della Vergine coronata di stelle, meraviglioso avanzo collocato in un sala della Biblioteca Palatina.
La copia dell'Artusi, servì a operare una riproduzione nell'abside.

L'Allegri eseguiva poi: il piccolo Sposalizio di S. Caterina di cui restano copie e ripetizioni, un altro Sposalizio di proprietà privata in Inghilterra; una Madonna ora a Budapest, la Madonna della della Cesta (a Londra); La Vergine che adora il Bambino (agli Uffizi), quest'ultima notevole per il fulgore e lo smalto del colori, e un Trittico il cui originale è perduto.
Assai notevole per la nobiltà della testa del Salvatore e per la plasticità del rilievo nel nudo è la Deposizione della Galleria di Parma del 1522 circa, seguita dal Martirio dei SS. Placido e Flavia (ivi) dipinti entrambi per una cappella della suddetta Chiesa di S, Giovanni.
Per ordine cronologico si collocano fra il 1523 e 1525: il Noli me Tangere (Madrid), e il Grande Sposalizio di S. Caterina del Louvre. Due piccoli affreschi, l'Annunciazione dipinta per l'antica chiesa dell'Annunciata in Parma, e la Madonna della Scala eseguita per una porta della stessa città, sono pure di quel tempo all'incirca. Finalmente il Correggio si mette alla prova, fra il 1523 e il 1525, nei soggetti mitologici coi due primi quadri l'Educazione d'Amore (National Gallery) e Giove e Antiope (Louvre). Opera culminante di questo gruppo, contemporaneo al terminare dei lavori in S. Giovanni, chiusi col fregio della nave maggiore, è la Madonna del S. Sebastiano (Dresda), grande pala d'altare apparsa circa il 1525.
Ed arriviamo al gigantesco fresco della Cupola del Duomo di Parma, commessogli insieme a quello dell'abside il 3 Novembre 1522, cominciato poco dopo e non nel 1526 come si ritiene da molti; già compiuto il 17 novembre del 1530. L'abside non venne neppure iniziata, forse perché l'ardita concezione della cupola non garbò troppo a qualche canonico. Dire brevemente di questa meravigliosa visione è cosa difficile e non degna della sua importanza. Dobbiamo premettere che il Correggio, spazzando tradizioni ed usi pittorici, non scompartì geometricamente la cupola ma anzi di proposito volle nella sua parte superiore dare l'illusione di spazi immensurabili.
La volta riceve luce da otto occhi circolari fra i quali corre un finto muricciolo; presso ad esso stanno gli apostoli sorpresi ed atterriti dall'improvvisa visione dell'ascendere di Maria. Numerosi fanciulli sono occupati ad accendere ed avvivare le fiamme di grandi candelabri ed a bruciare incensi ed olivi. Più in alto fra le nubi l'immane gloria di angeli, patriarchi, santi sale con la Vergine verso l'infinito, ed in mezzo ad una luce d'oro il Messo celeste scende ad Incontrare la Madre di Dio. Il Correggio, ispirandosi ad un motivo antico ha decorato il tamburo con putti in finto bronzo che strozzano serpi, evidente allusione simbolica alla Vergine che schiaccia il serpente. Nei pennacchi i santi protettori di Parma su nubi sorrette da Angeli; e sei bellissime figure in chiaroscuro nei sottarchi appendono festoni.
Il tempo ha guasto in molte parti questo capolavoro, tuttavia quanto rimane di originale basta a riempirci l'animo di ammirazione. Sono centinaia di figure librate nello spazio, che si raggruppano e s'intrecciano, si snodano, in contrasto con la solennità di alcuni Apostoli e con la tranquilla dolcezza dei fanciulli sul muricciolo. Ed in tutti è tanta verità di atteggiamenti, tanta plastica scioltezza di movenze, tale languore nei grandi occhi pensosi da farci stupire. Vasta fantasmagoria di scorci arditissimi coi quali il Correggio mostra d'aver saputo facilmente superare immani difficoltà tecniche.

Durante il lavoro della Cupola e fino alla morte del Maestro appaiono le ultime grandi pale d'altare tra le più belle rappresentazioni mitologiche e due quadri allegorici.
Nel 1527 o 1528 la Madonna del S. Girolamo, detta anche il Giorno per la sua luminosità, viene compiuta in sei mesi, preziosissima tavola conservata nella Galleria di Parma. La rude e potente figura del S. Girolamo contrasta con l'intima serenità della scena e con la dolcezza del paesaggio vespertino. Il disegno vi è lodevole, la tavolozza vigorosa e delicata ad un tempo, e la solita tecnica correggiesca, sfumata e morbida, aggiunge profondità all'insieme.

Fra il 1526 e il 1528 si collocano: Cristo nell'orto, «cosa molto bella » secondo il Vasari, proprietà del Duca di Wellington; a Londra l'Ecce Homo (National Gallery), sul quale pendono incerti i giudizi, e la Madonna della Scodella o Riposo durante il ritorno dalla fuga, (Parma, Galleria), altra opera mirabile. La cosiddetta Notte di Dresda è una Adorazione dei Pastori commessa nel 1522 da Alberto Pratoneri per la sua cappella inaugurata nel 1530 nella Chiesa di S. Prospero in Reggio Emilia. Trovasi a Dresda dal 1746, rimane all'antico posto la bella cornice, con una copia eseguita dal Boulanger. L'intera scena è illuminata dalla luce che emana dal Bimbo adorato dai pastori. In alto un coro d'angeli «par che siano piuttosto piovuti dal cielo che fatti dalla mano d'un pittore». La Madonna del S. Giorgio, ora a Dresda (1532?) è l'ultima tavola d'altare del Correggio. Pur conservando la nobiltà di tipi che gli è propria, l'artista ha dato a quest'opera un carattere diverso dal solito. L'insieme è decorativo; la parte architettonica è una riminiscenza dei pennacchi della cupola del Duomo di Parma, ornati da putti che reggono festoni; la scena, troppo mossa, riesce un po' tormentata: ha molta larghezza di piani ma minor rilievo degli altri lavori.

Sono d'interesse anche i quadri mitologici, cioè: La Danae della Galleria Borghese (del 1526 circa); Giove e Io nonché il Ratto di Ganimede (1530), ora entrambi al Kunsthistorisches Museum di Vienna ma provenienti dal Castello dei Gonzaga a Mantova; e la Leda che si trova a Berlino (1530-32).

La Danae del Correggio, alla Galleria Borghese di Roma
La Danae del Correggio, alla Galleria Borghese di Roma


L'Io e la Leda subirono una triste vicenda. Nel 1722 divenute proprietà di Filippo d' Orléans, il figlio di questi, Luigi, in un eccesso di bigottismo, tagliò i due capolavori e distrusse le teste dell'Io e della Leda. Le tele furono raggiustate dal Coypel, direttore della Raccolta del Reggente, che rifece anche la testa dell'Io, ripassata nel 1806 dal Prudhon; quella della Leda fu rifatta dallo Schlesinger nel 1830.
Dalla fattura ancora un po' cruda dell' Educazione d'Amore il Correggio passa via via all'Antiope e alla Danae: L'Antiope ha sofferto per restauri troppo spinti, un po' meno la Danae; tuttavia anche nel loro stato odierno ci permettono di giudicare il cammino percorso dal Maestro, sia nel gusto della composizione, sia nella ricchezza del chiaroscuro e nella delicatezza del colorito. La Danae specialmente è un capolavoro di grazia; nel colorito delle carni, ma il pallore (dai lavaggi) aggiunse forse seduzione alla nobiltà delle forme. Il Ganimede, bellissimo come trovata, non raggiunge la perfezione tecnica del precedente, tanto che alcuni, a torto, dubitano della sua autenticità. Ma l'Allegri si lancia tosto a volo più ardita nell'Io, dove la bellezza si unisce in mirabile armonia con un sentimento acutissimo che, pure rivelando intera la sensibilità femminile, si contiene nei limiti del più signorile riserbo. Da questo momento l'ascesa dell'Artista può dirsi continua, specialmente nella Leda la cui serena bellezza non è diminuita dal rifacimento della testina.
Fanno eccezione i due quadri allegorici del Louvre: La Virtù e Il Vizio provenienti dalla Galleria Gonzaga di Mantova; opere lodevoli sì, ma considerati da alcuni inferiori ai quadri mitologici. Dobbiamo anche osservare che, sebbene la documentazione intorno ad essi risalga fino al primo quarto del secolo XVII, non siamo ben sicuri che l'esecuzione spetti per intero al Correggio, del quale non si conoscono altre opere a tempera. Però tale tecnica fu praticata dai Mantegna e dalla loro scuola.
Dei numerosi disegni, sparsi un po' dappertutto, attribuiti con troppa facilità all'Allegri nel Settecento, pochissimi sono autentici, e questi eseguiti per lo più a sanguigna, come erano quelli che il Vasari conservava nei suoi famosi libri.

Presentati una serie di fatti sul grande Correggio, non ci resta che chiudere con le parole del Vasari: «Tengasi pur per certa che nessuno meglio di lui toccò colori, né con maggior vaghezza o con più rilievo alcun artefice dipinse meglio di lui: tanta era la morbidezza delle carni ch'egli faceva e la grazia con che finiva i suoi lavori».


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