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SS Carlo e Ambrogio La titolazione della chiesa è ai Santissimi Ambrogio e Carlo, i due principali patroni milanesi. Fin dal X secolo esisteva una chiesetta, denominata S. Niccolò del Tufo, sul luogo del grande tempio odierno, che nel 1471 fu concessa alla confraternita dei Lombardi. I Lombardi (con il quale termine all'epoca si intendevano gli abitanti di larga parte della pianura Padana) concentrarono la loro presenza nella zona. Nel 1513 dopo aver acquistato dalla famiglia Orsini un terreno attiguo, la riedificarono la chiesa ormai in rovina intitolandola a S. Ambrogio e accanto ad essa sorsero la sede di una confraternita e un ospedale. Nel 1612, grazie soprattutto alla cospicua donazione del cardinale Omodei, il quale elargì alla confraternita la somma di 70.000 scudi, si demolì la costruzione esistente e si iniziò a edificare una chiesa di proporzioni ben più vaste che fu intitolata ai SS. Ambrogio e Carlo Borromeo. Infatti nel frattempo papa Paolo V in onore di un nuovo santo molto venerato in Roma, Carlo Borromeo (nipote di Pio IV) mutò la confraternita lombarda in Arciconfraternita dei SS. Ambrogio e Carlo, imponendo l'abito che ancora oggi utilizzano. L'Armellini si lamenta che nella distruzione della chiesetta preesistente si siano perduti degli splendidi affreschi di Perin del Vaga e di Taddeo Zuccari. L'incarico di eseguire i lavori fu dato a Onorio Longhi; dal 1612 al 1619, anno della sua morte, egli riuscì solamente a impostare l'impianto della costruzione. Il progetto originario prevedeva un edificio ancora più imponente dell'attuale; il Longhi aveva progettato il fronte della chiesa su diversi piani di profondità, affiancato da due torri campanarie e sormontato da una grossa cupola attorniata da quattro cupole più piccole. Tale progetto originario non venne però mai realizzato. Per tre o quattro anni i lavori proseguirono diretti da un capomastro e nel 1623 Martino Longhi il Giovane, figlio di Onorio, fu nominato architetto della fabbrica di S. Carlo; la costruzione continuò sotto la sua direzione fino al 1651. Nel 1665 Martino era morto ormai da cinque anni e sovrintendente dei lavori divenne Pietro da Cortona il quale realizzò l'abside, la cupola e l'altar maggiore. Entro la fine del 1669 la cupola era ultimata. Solo nel 1672 vengono pagati gli artigiani che avevan provveduto al rivestimento di piombo e alla doratura della palla di rame e della croce di ferro che coronano il lantemino. Il tamburo presenta il motivo di un pilastro con due colonne che scandisce i vuoti rettangolari occupati dalle finestre. Ogni pilastro fa da base ad un costolone. Infine la facciata, gigantesca ma vuota, con un aspetto scenografico che appare poco collegato al corpo retrostante dell'edificio, fu eseguita negli anni 1682-84 dal prete Giovan Battista Menicucci e dal frate Mario da Canepina su progetto del cardinal Alessandro Omodei. Mastodontiche colonne e lesene dividono in tre campate l'altissima facciata coronata da timpano. Dello stesso periodo sono i due edifici simmetrici ai lati della chiesa, che un tempo ospitavano la confraternita e l'ospedale; in ogni caso occorre dire che l'insieme doveva dare un maggior slancio alla facciata della chiesa quando ancora sulla destra non si era creato lo slargo sul Corso dovuto alle demolizioni per la realizzazione di piazza Augusto Imperatore (1934-1938). Entrando nella chiesa, colpisce subito l'ampia spazialità dell'edificio a tre navate con cappelle laterali e volte a botte. L'interno è a croce latina, diviso in tre navate da massicci pilastri con addossate coppie di lesene corinzie dipinte a finto marmo. La particolarità di questa chiesa, unica a Roma, è che le navate laterali non terminano prima della zona presbiteriale, ma proseguono intorno ad essa con un deambulatorio (come il Duomo di Milano). Le volte della navata centrale (realizzata su disegno del da Cortona) del transetto, del presbiterio e delle navate minori, sono riccamente decorate da fregi e stucchi. L'affresco della volta della navata mediana rappresenta "La caduta degli angeli ribelli", opera di seicentesca Giacinto Brandi. L'artista eseguì anche gli Evangelisti nei pennacchi della cupola. La grande pala posta sull'altar maggiore raffigura la "Gloria dei SS. Ambrogio e Carlo", capolavoro di Carlo Maratta eseguito tra il 1685 e il 1690. Tutto l'insieme della decorazione interna della chiesa risulta di grande sontuosità e fasto, ed è certo uno dei più significativi dell' epoca tardo-barocca in Roma, tanto che ancor oggi la chiesa è considerata, da un punto di vista molto "mondano", come una delle più "eleganti" della città. Dietro l'altare, in un prezioso reliquiario, è conservata un'importante reliquia: il cuore di S. Carlo. Da una porta situata dopo la terza cappella a sinistra si può accedere alla Cappella di S. Ambrogio, la prima chiesa fondata dai Lombardi nel 1513, che occupa l'area esatta dell'antica chiesetta di S. Niccolò del Tufo. Interessante, ai fini della disamina statica, fu il fatto che durante la costruzione, prima di voltare la cupola, si susseguirono consulenze e contributi di vari architetti e capi mastri dell'epoca sui problemi che via via emergevano, essenzialmente riferibili alla tenuta o meno dei quattro pilastroni principali di sostegno. Furono allora interpellati gli architetti Carlo Rainaldi, Giovanni De Rossi e lo stesso Francesco Borromini che espresse parere contrario all'opera così come progettata dal Cortona. |
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