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Paradisi perduti

La Gazzetta, Gennaio e Febbraio 2001


Non sto parlando delle Galapagos, per le quali ci sarebbe già abbastanza da rattristarsi, e nemmeno dell'uranio dato in pasto alle popolazioni innocenti e ai soldati molto meno innocenti di mezzo mondo, ma di fatti personali come meglio si confà a questa gazzetta. Sebbene non possiate rattristarvi con essa quanto per accadimenti assai più seri, lasciatemi dare il mio contributo per augurarvi una pessima giornata.

Una nota: i due episodi seguenti sono veri ma ebbero luogo qualche anno fa e sono sicuramente sepolti nella testa dei personaggi, che qui resteranno anonimi.

L'amico

Mi accosto al portone che avevo superato decine di volte in tempi lontani e tentenno. Decido di soffermarmi, in attesa di un ricordo preciso circa la sua struttura, le piante all'ingresso, gli odori. Alla faccia di Marcel Proust, non arriva nulla... come spesso avviene, sono pieno di vaghi ricordi di sensazioni, desideri di sensazioni, e nessuna sensazione.
Il pianterreno mi è familiare; una volta lo superavo d'un fiato, adesso penso che mi convenga usare il citofono. -Sono Umberto, Umberto Rustichelli...-
-Ah, Umberto! Vuoi salire?-

Mi chiedo se la voce appartenga alla madre o alla sorella, se la sorella sia diventata una copia della genitrice nelle tonalità e nei gesti, come spesso accade... insomma, mi pongo un mucchio di domande di nessun valore per coprire la netta sensazione di essere nel posto sbagliato, al momento sbagliato.

E` la madre ad aprire, e dopo la necessaria ma indolore raffica di accertamenti sulla mia salute e la ragione della visita, indica una direzione: -Entra, Fulvio è nella sua stanza.
Prima che raggiunga la meta, Fulvio si trascina fuori con le mani nelle tasche, l'aria di chi sta per sedersi in poltrona e leggere un libro e, soprattutto, nessun segno di entusismo: -Oh, ciao!
Ennesima, silenziosa domanda senza risposta: -è imbarazzato?-. La capigliatura si dispone a caso sulla sua nuca, e i tratti del viso mi appaiono simili ad una mostruosa caricatura della gentilezza di quelli antichi, quelli che leggevamo da bambini l'uno nell'altro. Forse faccio lo stesso effetto, mentre mi invita dentro, si dimentica di chiedermi come sto ma preferisce passare al numero di esami che mi mancano... -Tu facevi matematica, no?-
-Quasi- ribatto: -ingegneria. Tu sei alla Sapienza?
-Sì, non ci siamo mai incrociati, però, però io sto sempre nella mia facoltà
-Non mi incontreresti comunque, io ci vado pochissimo: non seguo molto le lezioni, mi piace studiare a casa, e poi, francamente, odio il traffico e la caccia al posteggio. Più di una volta sono semplicemente tornato a casa passati i venti minuti di ricerca. Come odio la calca che c'è a certe lezioni...

L'avessi mai detto! Fulvio prende la palla al balzo, e da tanto taciturno che sembrava, mi inchioda alla sedia con un monoloquio sul fatto che si sveglia presto, che trova sempre il posto solo così, dove lo trova, sulla pesantezza delle lezioni, sul fatto che non c'è posto in biblioteca per studiare, eccetera.
Intanto, non mi guarda neppure per un attimo, semmai volge lo sguardo fuori della finestra, o fissa i libri sopra la mia testa, la moquette -che rende, assieme al parquet di altre stanze, un insieme di odori di nuovo familiari-. E allora anche io finisco per guardare altrove, agli stessi libri, per farmi un'idea di cosa legga, di come vive, ma vedo solo manuali per l'università e, stipati in un angolo dimenticato, gli album Panini dei calciatori, ma vecchi di venti anni. Fine del superfluo. Hesse? Asimov? Russi? Francesi? Contemporanei? Niente. Nessuna foto incorniciata, nessun ninnolo. Ah, sì, lo stendardo di una squadra di calcio. Nulla, peraltro, fuori posto. Eccetto il sottoscritto.
Eppure, quando eravamo bambini, mi sembrava un posto normale, solamente leggermente asettico rispetto al perenne disordine del mio antro. Ora mette a disagio le mie sinapsi, almeno quanto la totale assenza di gesticolamenti da parte di Fulvio, il cui corpo sembra posato in un rigido calco di gesso, le mani sempre in prossimità delle tasche. Quando l'ho visto per l'ultima volta? Credo nove anni fa, ma non riesco a fare il conto esatto mentre finalmente cambia discorso: gli "altri". Ne incontra qualcuno per strada, ma non ne frequenta nessuno. -Io sì- sto per dire, ma mi sembra quasi l'affermazione di chi tenta di vincere una gara, e la ricaccio dentro, tanto non me l'ha chiesto.
-Comunque sì, il parcheggio all'università resta un problema...- e ricomincia.
Termina quando cerco di cambiare discorso ma non funziona. Non ci posso credere, ho sentito un'ora di chiacchiere sulla disorganizzazione dell'università, non posso crederci... -Adesso devo proprio andare...-
-Oh, va bene. Eh, sentiamoci, una volta.-
-Ok. A presto...- bugiardo che sono.

Mi ha fatto piacere rivedere la madre, veramente, mi ha trasmesso quel senso di familiarità che non avevo apprezzatto all'inizio, con un "arrivederci" detto esattamente come allora, senza dubbio.
Ma Fulvio? Mi allontano con la netta impressione di non aver detto nulla di quanto volessi... tuttavia... tuttavia, a pensarci bene, non c'era proprio nulla di particolare né di premeditatato. E forse lui ne aveva, da dirne. Forse ho salutato male, forse avrei potuto stringergli forte la mano fino a spezzarla. Forse avrei potuto fare un mucchio di altre cose, per non perderlo per sempre.
Eravamo solo bambini.


La festa

Ebbene, lo ammetto, ho letto "Alla ricerca del tempo perduto" per intero, ma in gran fretta... solamente il primo libro ho seguito con una certa attenzione e, a parte quello, una sola scena, verso la fine, nata per mettere una grande tristezza. Chi ha letto, avrà capito che mi riferisco all'ingresso del protagonista in una festa. Ho individuato il parallelo dopo aver partorito l'idea delle righe che seguono e, per dovere di cronaca, sappiate che le annoto alle ore 1:00 del 31 gennaio 2001, probabilmente a causa di una pastarella alla panna oramai inacidita. Avrete anche capito che il libro di Proust, pur così trascurato per il modo in cui l'ho letto, mi colpì abbondantemente. Ma veniamo a noi...

Non ricorderò i volti di tutti, e soprattutto i nomi, ma cercherò di non ferire i sentimenti di chicchessia. La festa prevede la tenuta libera; per me, significa pantaloni estivi e camicione in caduta vericale, scarpe da ginnastica, aria sperduta. Mi apre Beniamino e gli stringo la mano, al bastardo: ero una delle sue vittime preferite. Eppure tutta la rabbia di allora è sparita, mi diverte rivederlo, e mi maledico per l'infame tradimento che perpetro ai danni del me stesso che fu. Balzo da un mucchio all'altro; a turno Gaia, Chiara, Giuseppe, Renato, Serafino e gli altri illustrano la propria evoluzione con l'unica eccezione degli assenti: i rabbiosi, gli scomparsi, i dimenticati.
Renato riesce a mischiare un po' le carte, a fare il padrone di casa per bene, ad essere per intero il contario del Renato di dieci anni fa. La curiosità sembra essere la molla che ci attira verso un unico centro, fino a che qualcuno azzarda battute sepolte da secoli, pizzichi, gesti non chiari, ma è già tardi: si dileguano per prime le ragazze, raggiungono i loro ignoti compagni, uno dei quali stava marcendo in un angolo della sala; spariscono i sobri lavoratori che ci hanno antipicipato saltando l'università, portando via le cravatte; gli ultimi si guardano intorno come avvoltoi pensierosi.
Sono tra i pochi vestito così, come era prevedibile. Mario e Francesco sfoggiano completi elegantissimi e mi fermo ad ispezionarli. Hanno sempre avuto la platea, ed ora ne cercano un'altra, eppure sento che, scegliendo me, stanno fallendo il tiro. I loro volti sono identici a quelli di allora, ma increspati di rughe profonde, e gli sguardi sono grigi come quelli di lupi furiosamente silenziosi. I capelli mi paiono nella stessa posizione, ma secchi e diradati. Hanno passato gli ultimi minuti di baldoria a commentare sugli abiti in sala, evitando accuratamente i conoscenti, e ravvivando lo stesso spirito antico che però si è spento nelle mani degli ascoltatori. Uno dei due mi guarda e spiega, con un largo sorriso: "Noi non andiamo, Umberto, lo sai perché, lo sai? Perché qui c'è la fica, vediamo che si rimedia."

Non riesco tuttora a capire perché quella battuta da film americano me l'abbia fatto sembrare ancora più vecchio, e soprattutto perché non riuscissi a sopportare la coincidenza con il timbro e l'intonazione di dieci anni prima. E soprattutto, dieci anni prima trattavasi della classica frase che, detta alla nostra età, faceva sorridere gli adulti perché detta da chi ne sapeva poco e niente (in effetti, era il tipo di frase che i due solevano tirare fuori nper impressionarci). Credevo si cambiasse, per provare qualcosa di diverso, forse. I due sghignazzano e scrutano le gonnelle, strizzano un occhio o fanno cenni con la testa, ma non individuo i bersagli. Mi sento di troppo, mi dileguo anche io, abbracciando Renato che ho continuato a frequentare e che forse solo per questo riesco ad apprezzare nei suoi mutamenti. Devo pensare, devo pensare a tutto questo. Lo farò sotto le coperte, o forse mi addormenterò subito.

Spesso vorrei saper tradurre in una immagine più nitida e stupefacente un episodio, per dare il senso di quanto mi abbia coinvolto. In questo caso, qualcuno ha già svolto il compito per me, vi invito nuovamente a dare un'occhiata alla Ricerca del Tempo Perduto, e all'improvviso paesaggio che l'autore scopre al suo ingresso nella festa, ritrovando tanti che non incontrava da tempo immemorabile. Fatemi sapere!


Cronache

Concludiamo con le notizie fresche di mesata.
La sconfitta sul piano editoriale è oramai evidente: ci sono pochi lettori da una parte e, di contro, il tempo tiranno che restringe i tempi redazionali. La gazzetta perde così ogni pretesa di periodicità per divenire un semplice bollettino la cui uscita risulta imprevedibile, come presso il sito dell'immortale Cthulhu, tuttora ospitato da un poderoso Vax (se cercate gloriosi computer dei tempi andati, rivolgetevi a lui).
Dato che qualcuno ha chiesto di vedere più foto -avessi il tempo-, ecco una pagina per Piro e Minù, e spero di aggiugerne in futuro....

Ho finito di leggere "Il mio paese e il mondo", di Andrei Sakharov, e devo dire che per essere un dissidente di fama internazionale di cose buffe ne scriveva (in quel libro) parecchie, non certo sull'Unione Sovietica e sui suoi guasti, che conosceva bene, quanto sull'Occidente, che vedeva come una specie di blocco unito contro il totalitarismo e il mondo comunista. Bacchettava gli occidentali per le loro divisioni, in una visioone pressoché pan-americana del potere mondiale. Per Sakharov, gli USA erano (e come dubitarne?) i leader dell'Occidente ma soprattutto (come non dubitarne, ovvero dissentirne?) dovevano continuare ad esserlo. Bah! Non che il libro mi abbia comunicato grande gioia, dato che non c'è nulla di divertente nel mondo russo di quegli anni. Ho anche visto, in parte, gli "Ultimi giorni" di S. Spielberg: le due cose, insieme, producono indubbiamente una certa amarezza.

Tornando ad Andrei, non ho comunque alcun dubbio del fatto che si tratti di un coraggioso, e che le ingenuità che apparvero nei suoi lavori non solo erano frutto di una sua impossibilità ad informarsi bene, ma egli stesso ne era cosciente e ne parla nei testi stessi. Per dovere di cronaca, si trattava di testi che egli dettava al telefono ad ascoltatori occidentali e che gli sono costati cari con la persecuzione di suoi parenti ed amici. Nemmeno pare si trattasse di un coraggioso a tempo perso, in quanto -secondo l'introduzione- i suoi scritti dettero un impulso ai processi di pacificazione e disarmo.

Infine, di rara bellezza le due seguenti produzioni: il documentario su Tutankamon del Discovery Channel (ma solo se, per rimanere in tema, volete rattristarvi) e la serie di documentari della BBC world ora in onda via satellite sulla genealogia del rock, unica nota positiva circa il viaggio di cui vado a narrare dalla stanza di un albergo.


The (second) Helsinki meeting

Carissimi, preparatevi ad una storia triste, tormentata, angosciosa e soprattutto vera, che cercherò di svelare per voi nei suoi lati tragicomici, nonostante tutto...
Il 19 febbraio 2001, Ubi parte sorridente per il suo secondo viaggio verso Helsinki, pregustando ottime carni, cime innevate, saune corroboranti e ameni ristoranti. La missione deve essere portata a termine, perché questa volta è stata voluta dalla Comunità Europea per valutare il mega progetto Trident ed eventualmente cazziare i suoi partecipanti, ("in-depth review" significa "vediamo se state a fa' qualcosa per davvero o a prenderci per i fondelli", ed è diversa da una pacifica standard review).

Aeroporto: Ubi si presenta con il suo sorriso migliore al check-in, dato che la volta precedente questo lo ha aiutato a portarsi quindici chili di bagaglio a mano. La gentil pulzella guarda i suoi tredici chili scarsi (meno del caso precedente) e sorridendo ammonisce: "MA-DDE-CHE-AHO?"
Deve trattarsi di una espressione finlandese, con la quale la signorina si fa consegnare la valigia giudicata troppo pesante. Un brutto presagio? Questa volta Ubi si è vestito troppo bene?

Sull'aereo, la plebe esulta: è talmente vuoto che i sedili di fronte si possono piegare orizzontalmente e crearsi cuccette di prima classe. Bellissimo, vero? Ubi, però, si accorge che la sua gola à un po' infiammata e il raffreddore eccessivo, e si dice: "Tranquillo, caro, anche se arrivi alle 23:00, ti infili nel taxi, vai in albergo, e dormi!"

Giunto alla meta, fuori dell'aeroporto una lunga coda di persone fa la fila: "Ouh! Is that the queue to the buses?!" chiede ad un nativo. E il malevolo: "MA-DDE-CHE-AHO! Oh, no sir. That is the taxi queue!". Circa cinque gradi sotto zero, e venti minuti di coda. Vabbeh. All'albergo, almeno, Ubi dorme. "It is a warm night", gli dicono. Secondo brutto presagio...

La mattina, apparentemente, solo una linea di febbre o giù di lì: "basterà coprirsi bene: maglione, cappotto, guanti, cappello con paraorecchie felpato..." e via con il solito ottimismo (ma quando imparerà?). E' il venti febbraio, la temperatura corporea di Ubi sale costantemente durante la riunione, qualcuno osserva che non ha una buona cera, volano le battute e così via, finché, per evitare il peggio, decide di evitare la cena comune e fila dritto in albergo con l'autobus (bravo, bella idea!). D'altro canto, siamo solo a meno cinque... Procede con una cena abbondante, si fa dare un paio di aspirine e affronta le notte: di certo, si dice, almeno si alzerà fresco... MA-DDE-CHE-AHO! La sveglia del giorno ventuno segue un dormire intermittente e sconsolante, ed è un risveglio terribilmente febbricitante. "Coraggio -si dice il pischello che ancora non realizza- oggi sarà il giorno peggiore, poi scende". Otto ore di riunione lo vedono a tratti sudare, oppure rigirarsi cento volte sulla sedia alla ricerca della posizione più calda, qualcuno afferma: "non so mica se ce la farà". Probabilmente supera sin da allora i trentanove gradi. La sera di nuovo pasto in albergo, e a letto con una pillola "come l'aspirina" che i finlandesi considerano eccellente: il Burana... "che agisce quasi subito". Il "quasi subito" significa un'ora e mezza prima che la febbre scenda. Vabbeh. Ubi sceglie con cura cosa mettere il giorno dopo per non gelare: la temperatura sta scendendo... Ma sicuramente, si dice, il peggio è passato.

Il giorno seguente, il fatidico ventidue, accogliamo i reviewes (valutatori) della commissione europea e l'aspetto di Ubi è chiaramente quello di uno yuppie imbottitosi di cocaina per reggere lo stress del manager: capelli disposti casualmente, occhiaie a bustone, appena un accenno di barba. La temperatura esterna è ora di venti gradi sotto zero... Tutti credono che queste cose accadano solo agli altri. La riunione è decisamente positiva, ma Ubi questa volta suda anche freddo, cambia vestiti cento volte, ha la voce di un orco. Uno dei reviewer tedeschi, mosso a pietà, gli suggerisce di andare a dormire presto, e Ubi azzarda una battuta: "I won't crash before the meeting is over". In realtà, ad un certo punto esce dalla stanza e si fa dieci minuti filati di tremore irrefrenabile, nascosto in bagno, con il corpo che sussulta gelato e i denti che intonano un meraviglioso concerto. Nel pomeriggio, gli altri godono di una meravigliosa sauna con annessa rotolata nella neve, mentre la vittima, dopo una patetica presentazione sotto gli sguardi impietositi della commissione, si ritira in ordine. Ma è proprio la sera che arriva il bello, in albergo: in camera, batte i denti sotto le coperte per quasi un'ora, stimando di essere vicino ai quaranta gradi; due piumoni, una coperta e il riscaldamento gli fanno un baffo. Poi, in un attimo di leggero torpore, si sente pronto per affrontare la cena, necessaria all'inghiottimento di qualsiasi tipo di medicina. Durante il pasto, il malcapitato sente di stare ingurgitando troppo e si dirige verso la prossima toilette, ma appena entrato si accorge che sta per arrivare il fatidico cedimento (per chi non è mai svenuto, potrebbe essere difficile prevederlo). Ubi si affretta verso il ristorante perché almeno là qualcuno potrà vederlo. "Ce la faccio, ce la faccio!". MA-DDE-CHE-AHO! Si accascia sulla moquette di uno stanzino abbandonato, e apre gli occhi dopo un po', chiedendo a se stesso in quale posto del mondo si trovi. Dirò di più... trattandosi del quarto svenimento della sua vita, Ubi può finalmente dire di averne studiato profondamente la dinamica. In questo caso, la perdita di coscienza è stata totale e rapidissima e il risultato è il seguente: trattasi di una vera perdita di coscienza, perché per il primo decimo di secondo si è attivato il linguaggio di Ubi: "dove sono?", ma non la sua identità (a quanto pare, ci vuole di più a ricordarsi chi si è), e Ubi non ha avuto alcuna idea del tempo che è rimasto a terra. Comunque, riacquisita la cognizione spazio-temporale, torna a sedersi al suo tavolo in attesa di sentirsi meglio. Ma si risveglia di nuovo per terra, con la testa un po' indolenzita, e due ignoti personaggi che lo fissano. Forse pensano ad una sbronza a base di succo d'arancia. Comunque, uno dei due è il cameriere e si preoccupa subito di sapere se il cibo avesse qualche problema.
"MA-DDE-CHE-AHO! -ormai Ubi padroneggia il dialetto- it's me, I'm sick..." Quello insiste per seguire Ubi in camera (ovviamente, il giorno prima c'era una bella biondina al suo posto, mentre questo è un toro con la testa pelata) ma Ubi raggiunge il letto senza aiuto -nossignore, dovesse fare una mossa intelligente- e come tutti i super-malati, prima dell'ennesima notte fatta di continue interruzioni sudate o tremolanti, inizia a fare le sue diagnosi...

Tutto iniziò con una faringite e un leggerissimo raffreddore, primi chiari sintomi di una influenza, poi il gelo ha fatto il resto, ma lo svenimento deriva certamente da una congestione o giù di lì. Il fatto più scocciante è che, data l'incuria e il continuo lavoro in stato pietoso, la faringite o quel che è ha lasciato posto ad una infiammazione molto più in basso, presumibilmente ai bronchi, e Ubi ricorda bene quello che disse una dottoressa: "attenzione a curare la gola che se si va ai bronchi diventa cronica...". Ubi è a cinque svenimenti in tutta la sua vita, il che ne fa un mezzo esperto, e finalmente, guardando anche indietro, sentenzia che in almeno quattro casi su cinque trattavasi di una congestione o giù di lì, e forse anche il quinto... Insomma si sa che i malati pensano alle proprie malattie, no?! In effetti, in quell'unico giorno, il peggiore, Ubi ha intravisto la possibilità di finire all'ospedale, eventualmente trascinatovi a forza dal personale dell'albergo...

Finalmente, l'ultimo business day (solamente la mattina), taxi per l'andata e il ritorno e subito sotto le coperte. Non che Ubi fosse un fiore, ma rispetto al giorno prima ce ne passa... Il successivo, senza lavoro, di permanenza necessaria a pagare il volo ben due milioni in meno, Ubi giace nella sua stanza, vi porta la colazione e la mangia per cena (un blocco intestinale o dello stomaco, non sa, gli impedisce di consumarla prima), alterna qualche minuto di letto ad ogni attività. La parte del corpo più fastidiosa è ora la pancia, dolorante e con masse di aria e liquidi che fanno su e giù. Alle 16:30 si sente soffocare, ha bisogno di aria e decide che un uomo non è un uomo se non riesce a comprare il nostromo di legno al negozio sul porto. La Natura appare clemente: ci sono sì venti gradi sotto zero, ma non tira vento (e fa una differenza enorme): se ci fosse stato, non avrebbe potuto procedere. E voi credete che la Natura facesse tutto questo per il suo bene? O per invogliarlo a tentare? Ecco Ubi che, simile ad un lupo siberiano, avvolto da una montagna di lana, raggiunge il porto, contempla la bianca cattedrale e le navi ferme nel ghiaccio. E il negozio di souvenir è... chiuso. Aaaaarrrgghhhhh! Certo, perchè il sabato, alle quattro del pomeriggio, i finnici chiudono i souvenir shop.

Nell'amara ritirata sotto le coperte, si convince sempre più che il lavoro uccide, e sogna l'agosto sotto una tettoia, Tarquinia, un caldo soffocante, una pizza tonda e soprattutto una testa senza febbre, una pancia funzionante, un sonno ininterrotto. Lo consola il fatto di aver raggiunto livelli di sofferenza a lui sconosciuti, che non potranno ripetersi per un pezzo.

Roma: il cielo è plumbeo e triste, è domenica e Ubi si trova ancora sotto il letto, nonostante una settimana di passione. Ma ha solo trentasette e mezzo, riesce a mangiare, non ha sudori freddi. Ha quasi le lacrime agli occhi.

Qualche ignaro chiederà: "Stato bene in Finlandia?"
MA-DDE-CHE-AHO!


Ed è dal mio capezzale che vi lascio ai vostri tenebrosi destini. Io, ho già dato.


        vostro lugubre Ubi

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