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Omissis, luglio 2000: Dedica


Dal colore scelto per questa pagina, al mio pensare, io sono sincero davanti al mare. Non si tratta di un volere, quanto dell'assoluto despotismo del rumore delle onde. Sciaquano via le rime nate per perdere tempo, il farfugliamento balordo della vita quotidiana, le note stonate della sua corsa asimmetrica, la sghemba figura delle nostre prese di posizione, il rancore, il dubbio.

Non siamo affatto uguali davanti ad alcuna delle costruzioni dell'uomo, dalla sedicente giustizia all'affetto che dovremmo prodigare, alla morale imposta a causa della nostra sorda incapacità di coltivarla, al benessere che solo i benestanti possono così scioccamente denigrare: noi siamo uguali solamente di fronte al mare, alla morte, al disgusto e al terrore degli animali.

Eppure qui, il mio cervello viene sbattuto similmente ad uno straccio e svuotato, finché non vi prendono forma i ricordi di quanti hanno sfiorato, a torto o a ragione, con vantaggio o per soffrire, la mia vista, le mie mani e le mie idee. Sarebbe davvero ingrato ricoprire di parole solamente quanti ho apprezzato o quelli che hanno magneticamente attirato il mio sguardo; sarebbe davvero falso, tuttavia, inviare un saluto sorridente solamente a quelli che mi hanno voluto bene, senza che io me ne rendessi conto o che li avessi ricambiati in qualche modo.

Come i letti autunnali di foglie colorate sull'humus del bosco, vorrei passare su tutto, senza lasciare tracce di dimenticanza, vorrei essere generoso -per una volta- come le onde che salgono una sull'altra e giocano indistintamente con i vecchi e i bambini, spumeggiando senza sosta dietro l'incantesimo della brezza. Non credo di avere una indole tanto meritevole, ma un pensiero, dico uno, dovrà pur esserci quando una spinta convincente mi spoglia.

Se dovessi parlare di bellezza, direi che la trovo prima nel modo più banale, per poi rifinirla o intristirla a seconda del modo in cui la donna muove le mani, si insinua nel mondo, si guarda allo specchio; se dovessi parlare d'amicizia, direi che essa viene da sé e che non ho mai fatto nulla né per meritarla, né per amplificarla; se dovessi parlare dell'ammirazione, direi che è un po' forzata, perché cozza con il mio vedere tutti alla stessa altezza, me compreso... comunque, il numero non mi basterebbe mai per comprendere tutte le persone dei miei ricordi, presenti, lontane e passate. Non esiste, lo dico, non esiste, un modo per far riconoscere a tutte, in poche righe, un cenno ad ognuna senza eccezioni. E forse sto solo fantasticando, il mare è una droga e cado in un oblio privo di senso.

Un gabbiano è fermo, non troppo lontano, attento -sempre attento-, illusione di libertà colma della grazia dell'avorio pulito, ebbene no: la sua vita à faticosa e solo a tratti lo solleva dalla fame, nella stagione migliore. Il suono delle onde si ferma all'improvviso, la spuma diventa ghiaccio e la sorda mancanza di suoni accompagna il congelarsi del tempo. Il gabbiano è dietro lo specchio e davanti sono io, perfettamente uguali, ironiche rappresentazioni dello stesso concetto. Silenzio. Silenzio. Silenzio. Ci guardiamo per un attimo e lo leggo chiaramente, anche il gabbiano è stato preso: io devo tornare qui, per non morire, l'uccello vi dimora, ineluttabilmente.

La scena svanisce, come il soffio sull'ultima candela. Chiuso in una biblioteca circolare, ammantata di scaffali scuri, occhieggiato da libri polverosi ricchi di quelle cose che mi proteggevano da bambino, patisco ancora lo stesso, sordo silenzio. Una porta in mogano massiccio mi ricorda la sua terribile ambivalenza: uscita e protezione, rifugio e inizio. Concedo ai pensieri di fluire e raccolgo le stesse persone, mi seguiranno ancora simili a spettri... La mano scende sulla maniglia, spalanco e vedo di nuovo, nel suo rumore, nello splendore, in tutta sincerità: il mare.


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